“Oltre le idee di giusto e sbagliato c’è un campo. Ti aspetterò laggiù” (Rumi)
Nessuno sapeva di questo viaggio. Nessuno sapeva che ti avrei incontrato.
E solo ora che, sorridendo, ti avvicini a me, ho la certezza che tu esista davvero.
L’aereo è atterrato poco prima delle 14:00.
Approfitto di questo anticipo per riordinare idee e bagagli.
Peter arriva poco dopo.
Il cappello, ricordo del nonno, e gli occhiali da sole gli nascondono parzialmente il viso, ma ci basta un attimo per riconoscerci e, mi dirà in uno dei tanti viaggi in autobus, “ti avrei riconosciuto anche se ci fossimo visti tra 5 o 20 anni“.
C’è un intero anno tra noi: un anno di vuoto, un anno in cui spesso mi sono chiesta se ciò che avevo vissuto fosse semplicemente frutto della mia immaginazione.
Un anno in cui la vita è tornata a scorrere, in cui entrambi abbiamo fatto scelte importanti. Un anno di decisioni e cambiamenti.
Comunque, un anno di silenzio.
Come mi sarei sentita nel rivederlo? Cosa avremmo fatto se, nel trovarci, ci fossimo scoperti tanto diversi da come ci eravamo immaginati? Come gestire quella possibilità?
La mente, nel lungo mese che ha preceduto la partenza, ha elaborato un’infinità di pensieri simili e forse per questo avrei voluto avere la possibilità di raggiungerlo subito: per non pensare.
E perchè il desiderio di presentarmi nel migliore dei modi possibili si è scontrato, in queste quattro settimane, con una serie di ostacoli e di tentativi più o meno consci di boicottare un’esperienza che, alla fine, si era caricata di un valore simoblico forte.
“Per te tutto è drammatico” mi ha detto un Peter, riconsegnandomi così all’impossibilità di fuggire da me stessa.
Queste parole mi hanno ferita, anche se non sono state pronunciate con l’inenzione di causare dolore.
Ma hanno colpito nel segno, proprio perchè sono vere.
La mia sensibilità, quella che inutilmente cerco di placare, quella che risulta tanto utile in alcuni momenti e in certi ambiti della vita, diventa, in altre circostanze, la peggiore delle condanne.
E la leggerezza che ricerco e che porto nel lavoro, quella che mi spinge a calare la filosofia nella concretezza di un’immagine di moda o di un chicco di uvetta, risulta, nella sfera privata, una meta che solo a tratti riesco a raggiungere e dalla quale, ciclicamente, mi allontano.
Solo dopo essermi scontrata con ciò che sono, solo dopo aver accettato di essere anche questo, ho saputo ritorvare quella parte di me che ama giocare, che ama riservare all’altro un’attenzione speciale, che si nutre della quotidianità e sa portarvi ogni giorno qualcosa di speciale.
Non so che idea Peter si sia fatto di me: immagino che mi abbia conosciuta a sufficienza per individuare i tratti caratteristici della mia personalità, ma mi chiedo se sappia di tutte le Valerie che sono stata e di quelle che ancora voglio e posso essere. Mi chiedo se intuisca quali sono le ombre che oscurano l’anima e quali i lati del carattere che emergono quando mi sento finalmente libera di lasciarmi andare.
Forse ci sarà spazio anche per questo.
Forse continueremo a giocare la nostra partita, forse saprà stupirmi come ha fatto finora. O forse no.
Ed è con quella possibilità, con quel “forse no” che oggi faccio i conti: con la fine, non solo e non tanto della parentesi berlinese, ma con la fine delle cose, con la presa di coscienza della possibilità del “no” e del “non più” o del “mai più“.
E’ con questo lato drammatico che riconosce nelle cose ciò che esse rappresentano per l’anima che mi voglio e mi devo confrontare per riuscire ad elaborare gli eventi e a viverli con altalenante stabilità.
Grazie, allora, my dear knight, per il mio nuovo soprannome e per aver reso questo “appuntamento al buio” una scommessa vinta.
I wish you all the best.
Your Ninja Yogini 😉