Philosophy For Children

LA P4C: STORIA E LEGITTIMAZIONE

 

La P4C nasce negli anni ’70 da un’idea di Matthew Lipman, docente di Logica presso il Montclear State College, come metodo didattico attraverso cui  sviluppare le capacità logico-cognitve dei giovani. Partendo dall’eredità del filosofo e pedagogista John Dewey, Lipman si è reso conto sia dell’importanza di partire dall’esperienza concreta presente del bambino quale stimolo per la ricerca e l’apprendimento, sia dell’importanza di favorire un atteggiamento partecipativo e democratico che porti alla co-costruzione del sapere. Lipman aveva infatti constatato la difficoltà degli studenti ad affrontare e comprendere la sua materia e voleva trovare un modo per favorire nei giovani lo sviluppo di capacità logiche e l’uso riflessivo del pensiero.

La Philosophy for Children non si occupa di insegnare filosofia, il suo obiettivo è piuttosto quello di sviluppare le abilità di pensiero nei bambini di età variabili dalla prima età scolare fino ai primi anni dell’insegnamento superiore e si propone quale modello operativo di educazione del pensiero al pensare. Lipman ha infatti ideato una metodologia che coniuga le esigenze di elaborazione concettuale con quelle ludiche come la lettura di racconti e dialoghi comunitari che stimolino il confronto su tali testi con l’aiuto degli insegnanti. Al centro della prospettiva c’è l’idea che la classe debba trasformarsi in una comunità di ricerca di tipo filosofico, sul modello delle comunità che si raccoglievano intorno a Socrate. Lo scopo è quello di raggiungere la chiarezza cognitiva, presupposto dell’azione consapevole. L’intento degli incontri, dunque, non è quello di insegnare filosofia, ma indicare una strada che possa aiutare i bambini a pensare, confrontandosi con esperienze diverse, interrogandosi circa la responsabilità della loro stessa educazione, diventando mano a mano soggetti reali del loro divenire. All’interno della comunità di ricerca bisogna cercare di conciliare prospettive ed esigenze diverse, da quella indagatrice a quella dialogica, dal lavoro individuale alla vita collettiva ed ogni membro è chiamato a interrogarsi e riflettere attivamente, classificare, individuare similitudini e differenze, elaborare soluzioni inedite, insomma attivare ciò che Dewey chiamava inquiry, ricerca. I bambini indagano sulla realtà che li circonda molto precocemente ed il metodo della Philosophy for Children prende le mosse da questo loro continuo interrogarsi, segno della loro filosofica meraviglia e del legittimo stupore di fronte al mondo. Un corso di filosofia con i bambini non è un luogo nel quale si espone la teoria platonica delle idee, ma un processo attraverso cui li si impegna a porre domande, a svilupparle e a riferirle al mondo in collaborazione con gli altri. Nei corsi scolastici tradizionali o in contesti educativi extra-scolastici, le questioni di senso che pone il bambino sono spesso svuotate. Gli adulti tendono a bloccare questo tipo di domande e impediscono al bambino lo sforzo verso la via della filosofia e quindi del senso. A volte trascurano la domanda, altre volte la evadono oppure edulcorano la realtà per paura: spesso noi stessi siamo turbati da queste questioni oppure non osiamo dire che non conosciamo la risposta e temiamo di mostrare i nostri limiti, le nostre debolezze, come se il dubbio e la ricerca non fossero profondamente educativi.

Nelle sessioni di P4C, a partire dalla lettura di brevi racconti, i cosiddetti testi-pretesto elaborati dallo stesso Lipman con lo scopo di fornire spunti su tematiche prettamente filosofiche, si innestano dialoghi filosofici nei quali entrano in gioco tre tipi di pensiero: critico, creativo e caring. La dimensione critica è insieme inquisitive e deliberative, è governata da regole procedurali funzionali all’individuazione ed alla soluzione dei problemi. Essa presenta, dunque, un’apertura alla ricerca ma anche alla scelta, alla decisionalità, alla responsabilità operativa attraverso l’individuazione di criteri, ragioni, giustificazioni, fondamenti in relazione alla specificità dei contesti di riferimento. Consente, inoltre, di operare connessioni e distinzioni, muovendo in direzione ordinatrice. In questo quadro il pensiero critico si articola attraverso la formulazione di giudizi, in una prospettiva autocritica ed autocorrettiva, assumendo valenze metacognitive. La dimensione creativa del pensiero si configura, per il filosofo nordamericano, come peculiarmente complessa in quanto implica la possibilità di far simultaneamente riferimento a criteri conflittuali, in vista del superamento delle dicotomie e delle opposizioni attraverso nuove costruzioni ed interpretazioni. Il pensiero creativo è quindi un pensiero che vuole “trascendersi”, muovendo oltre schemi e matrici precostituite. In questo senso può deliberatamente fare a meno di regole e di percorsi codificati, utilizzando una pluralità di veicoli espressivi i quali possono sostituire o affiancare il codice linguistico, preferenziale per la dimensione critica del pensiero. Il significato dei termini inglesi to care, to take care of rimanda all”‘aver cura”, ad un aprirsi all’esterno, alla dimensione esperienziale ed intersoggettiva, alla responsabilità e senso del valore delle persone e delle cose con cui si entra in relazione. L’aspetto valoriale, pertanto, in questa dimensione, è estremamente significativo. Attraverso il pensiero, che si traduce in azione, noi diamo senso e valore al mondo, connotandolo di implicazioni affettive, prendendoci così “cura” di quanto ci circonda e di noi stessi. L’aspetto cognitivo si arricchisce, quindi, di valenze affettive ed emozionali da cui è impossibile prescindere per un rapporto autentico con cose e persone.


Pubblicato

in

da