“Chi evita l’errore elude la vita”.
(Carl Gustav Jung)
La difficoltà maggiore per un facilitatore sembra essere quella di pensare come un bambino, di porsi nei suoi panni, di individuarne le strutture di riferimento e comprenderne la mappa mentale.
Ma tale supposta difficoltà nasce da un presupposto sbagliato.
In una sessione (sessione, non seduta!) di Philosophy For Children, infatti, ciò che viene chiesto al facilitatore è di restare se stesso e, alla luce delle sue abilità, competenze, conoscenze, essere disposto a dialogare con una persona – il bambino – nel rispetto della diversità e con la fiducia che lo scambio sarà reciproco.
Ovviamente, il facilitatore possiede maggiori conoscenze ed ha acquisito, nel corso della vita, numerose esperienze, ma il suo compito non è quello di portare la comunità di ricerca su una strada predefinita, né di convincere qualcuno di alcunché.
Al contrario, egli è chiamato a prendere atto di ciò che c’è, ossia a riconoscere i concetti impliciti negli esempi che i ragazzi condividono o nelle frasi non sempre adeguatamente chiare o strutturate, per poi valutare insieme se e quanto tali idee siano fondate.
Non importa ciò che il facilitatore crede, non contano le sue idee e, in un certo senso, contano relativamente anche quelle dell’interlocutore.
Ciò su cui si posa l’attenzione è piuttosto il processo che conduce alla formulazione di un pensiero e la verifica, attraverso il confronto con l’esperienza e attraverso l’esame logico, della fondatezza di un’idea.
Ecco perché, una volta che la comunità di ricerca ha interiorizzato il processo e quindi è diventata autonoma e in grado di porre da sé domande, esempi, contro esempi, ecc, allora il facilitatore quasi scompare, perché la sua funzione regolata e quella epistemologica vengono assolte dalla comunità stessa.
In questi casi, egli si limita ad osservare e restituire, magari a fine sessione, la fotografia del processo, per rendere gli alunni più consapevoli degli obiettivi e dei metodi che ci si prefigge di raggiungere attraverso il dialogo filosofico.
Si tratta quindi, una volta che la comunità abbia raggiunto un discreto livello di esperienza e maturità, di fare una meta-riflessione sulle abilità che, attraverso l’esercizio dell’ascolto, del dialogo, della problematizzazione e dell’argomentazione, ogni membro della CdR stia acquisendo e di come questo trasformi la qualità della comunicazione interpersonale.
E si tratta di sottolineare, attraverso esempi e riferimenti all’esperienza avuta, le diverse forme di intelligenza che vengono coltivate durante le fasi del laboratorio – da quella creativa che viene stimolata nelle attività iniziali o quando viene chiesto di individuare una molteplicità di soluzioni al problema, a quella critica, che affiora in modo evidente quando si analizzano le domande proposte dopo la lettura di un testo o la visione di uno stimolo o, ancora, la dimensione caring, relazionale, che si coltiva durante il lavoro in gruppo o quando ci si decentra e si lascia spazio all’altro.
Soprattutto, il facilitatore, grazie alla pratica, diventa più consapevole dei limiti del suo stesso pensiero e del fatto che l’età, l’esperienza o gli studi fatti non sono una ragione sufficiente per affermare che il suo pensiero sia in qualche modo superiore a quello dei ragazzi.
Sessione dopo sessione, infatti, riconosce che uno dei parametri per valutare la buona riuscita del laboratorio è chiedersi quanto egli stesso ha imparato grazie all’incontro con la CdR, quanto è stato disposto ad ascoltare e a trovare, nel dialogo spunti per coltivare quel processo di ricerca che, nella mente del filosofo, non ha mai fine.
Prossimo appuntamento con la formazione in Philosophy For Children: 23,24 febbraio, Roma
A presto, dunque, con i racconti dai laboratori di Philosophy for Children!
Valeria