“Ogni nuovo mattino, uscirò per le strade cercando i colori”.
(Cesare Pavese)
Ad un certo punto, qualcuno ha acceso la luce.
E ha riportato nel mio mondo, quello in cui le cose sono bianche o nere, una vasta gamma di sfumature che, nel corso del tempo, avevo smesso di vedere.
Quel qualcuno è stato Aristotele.
Che, in un passo dell’Etica Nicomachea, problematizza l’affermazione socratica secondo cui “chi sa cosa sia il bene, non può che agirlo”.
Per Socrate, un po’ come per Buddha, la vera conoscenza non riguarda infatti la sola sfera intellettuale né la dimensione puramente razionale.
Conoscere significa piuttosto interiorizzare una consapevolezza fino ad agirla.
Meglio: fino a sentire che non puoi agire diversamente.
Se lo fai, se ancora scegli il “male” invece del bene, è perché non hai davvero compreso.
Per Socrate questo è il naturale approdo della consapevolezza che l‘uomo si distingue dalle altre creature per via della sua ragione e che, dunque, è proprio quando segue la ragione che l’uomo è realmente tale.
Per lo yoga, a tale “necessità del bene” si giunge quando si fa esperienza della interconnessione.
Ovvero, quando senti, percepisci, realizzi, comprendi, sperimenti, che tutto è uno e che qualsiasi cosa tu faccia “all’altro”, la stai in fondo facendo a te stesso.
In entrambi gli approcci, essere uomini assomiglia allora più ad un approdo che ad un presupposto.
Aristotele sembra più clemente e ci permette di appropriarci di questa “etichetta” anche quando, pur provando, non siamo in grado di agire in modo virtuoso.
Bisogna tentare, certo.
Ma non riuscirci o non esserlo sempre e completamente è parte del processo che ci guida alla virtù o, per dirla in termini più yogici, alla realizzazione.
Il tentare stesso, quindi, si configura come cifra della nostra umanità. E l’errore, lo sbaglio, sono allora parte del processo.
Si tratta quindi di spostare l’attenzione dal risultato al percorso e di riconoscere che tra i due estremi, il bianco e il nero, appunto, ci sono tante situazioni intermedie che, forse, valorizzano meglio la complessità dell’essere umano e tengono in considerazione i suoi condizionamenti, le sue fragilità, le sue difficoltà.
Insomma: Aristotele riconosce diritto di cittadinanza nel mondo umano anche a noi mortali che, un giorno dopo l’altro, ci rimbocchiamo le maniche e proviamo ad essere la versione migliore di noi stessi.
Di certo, tentare di migliorare è compito dell’uomo.
E, in questo yoga e filosofia si rivelano alleate.
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