“Mi saprebbe dire quanti metri è grande questa stanza?”. “16” rispondo io con fare sicuro, ben sapendo di non avere la minima idea della reale dimensione dell’aula nè di come fare per misurarla.
La vocina nella mia testa – che ha un timbro di voce incredibilmente simile a quello della mia mamma – suggerisce malignamente che lo scopo di questa domanda sia verificare se una filosofa abbia o meno dimestichezza con le questioni pratiche.
In realtà poco dopo scopro che (fortunatamente) le intenzioni dell’esaminatore sono altre: ciò che vuole valutare è la mia propensione ad agire per metodo o per obiettivo in situazioni di stress.
Credo che nemmeno lui si sia reso conto di quale regalo mi abbia fatto ponendomi davanti all’evidenza: che si tratti di una simulazione di colloquio o della “vita vera”, mi capita di sacrificare il metodo in nome del risultato: non importa come ci arrivo, importa arrivare.
Saperlo, riconoscere questa tendenza, mi è servito nei successivi giorni a cambiare le cose. Al corso, ma non solo.
Come non pensare, infatti, a tutte le volte in cui la fretta, l’impulsività, la paura, l’euforia o chissà cos’altro, mi hanno fatto perdere di vista gli “insegnamenti” e, invece che cavalcarle, mi sono lasciata travolgere dalle dinamiche?
Nulla di male e nulla di irreparabile ma, forse, questa consapevolezza servirà per evitare che le ombre che mi popolano possano giocare con la mia vita più di quanto già facciano.
Questo articolo, dunque, è un inno al metodo, alla costanza, all’impegno quotidiano, alla cura dei dettagli e delle piccole cose, al restare vigli e attenti davanti ai meccanismi nei quali spesso siamo risucchiati. Così facendo, si arriva al risultato.
Anche la felicità, infatti, è questione di metodo.