“La vita ha due doni preziosi: la bellezza e la verità. La prima l’ho trovata nel cuore di chi ama e la seconda nella mano di chi lavora”.
(Khalil Gibran)
Ricordo che da piccola, Fausto, uno dei cuochi del ristorante di famiglia, mi diceva spesso, con tono sconsolato: “Ah, a te non piace proprio lavorare!”.
Quando poi ho scelto di studiare filosofia, il verdetto sembrava insindacabile.
In un certo senso, Fausto aveva ragione.
Non mi piaceva lavorare, nel senso che la prospettiva di trascorrere del tempo a fare una cosa, solo perché obbligata o solo in prospettiva di una remunerazione economica, beh, non era allettante allora come non lo è adesso.
Purtroppo, seppur con eccezioni in costante crescita, siamo ancora lontani, culturalmente, da un’idea di lavoro inteso come piena espressione di sé, del proprio essere, del potenziale insito in ciascun individuo.
Per molte persone il lavoro è un mezzo in vista di un fine e non possiede alcun valore intrinseco. Pur senza necessariamente diventare azione ripetitiva, meccanica, straniante, è probabile che questa considerazione del lavoro rafforzi l’idea che esistano delle ore, durante la giornata, consacrate al dovere o alla necessità ed altre in cui coltivare i piaceri della vita, riposare, realizzare se stessi.
E’ un’idea che apre le porte alla scissione del sé.
Il lavoro, inoltre, spesso ci assorbe per la maggior parte della settimana e, soprattutto, questa abitudine a posticipare la “felicità” ad un momento “altro” rispetto a quello che viviamo, non fa che perpetuare la falsa credenza che debbano esistere determinate condizioni affinché si possa stare bene.
E ci allontana dal riconoscere in ciò che accade, qualunque cosa accada, quel flusso vivificante che qualcuno definisce energia, qualcuno amore, qualcuno Dio.
Ecco che allora, cambiando prospettiva, anche nel lavoro più alienante possiamo riconoscere un valore intrinseco – che riprendendo Robert Pirsig, autore de “Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta“, possiamo definire “Qualità” – che gli appartiene in quanto il potere di relazionarci agli eventi con gioia, dedizione, impegno o con noia, distanza, lamentela, è solo ed esclusivamente una nostra scelta.
Questa sola considerazione, se interiorizzata, diventa così la chiave per voltare pagina.
Senza voler in alcun modo suggerire di restare imbrigliati in situazioni che non ci valorizzano, credo piuttosto che, riportando qualunque cosa accade alla nostra interiorità e riassumendoci la responsabilità di ciò che facciamo, di come agiamo e di ciò che proviamo, piano piano la vita ci offrirà nuove possibilità per crescere, evolvere, esprimerci.
La stessa Bhagavad Gita, uno dei testi di riferimento dello yoga, parla dell’azione come veicolo per riconnettersi al divino.
Agire senza attaccamento al risultato, ricercando la perfezione come valore in se stessa, diventa un fare che trasforma l’essere e ci restituisce in questo modo alla consapevolezza che, infine, agente, agire ed agito sono diversi modi di definire la stessa realtà.
Non due, dunque, ma uno. Si arriva sempre qui.
Alla luce di queste considerazioni, abbiamo ideato un percorso, teorico ed esperienziale, che suggerisce un cambio di prospettiva rispetto alla visione tradizionale del lavoro e che, attraverso esercitazioni e suggerimenti di counselling, permette di attivare potenzialità e risorse per giungere alla piena espressione di sè.
Per maggiori informazioni sul corso: [email protected]
Con gioia e tanto amore per il mio attuale “lavoro” 😉
Valeria