Lavorare col cibo nella pratica filosofica

In che senso il cibo può essere oggetto di indagine in un laboratorio filosofico oppure in una seduta individuale di consulenza filosofica?

E in che modo la pratica filosofica migliora il rapporto con il cibo e, infine, con noi stessi?

Il punto di partenza può essere vario: dal racconto che il consultante fa della sua storia alimentare ad un’esperienza concreta, come la chocolate meditation, dalla citazione di un filosofo in merito al nostro modo di nutrirci o al rapporto tra il piacere dei sensi e il controllo delle passioni sino ad un esercizio che stimola la mente e che, apparentemente, non ha nulla a che fare con il tema in questione.

Esplorare filosoficamente la relazione con il cibo può aprire numerose porte e sta alla sensibilità del consulente, in accordo con le richieste del consultante, stabilire quale strada percorrere.

Il cibo, infatti, può essere un semplice pretesto per portare alla luce un disagio o una sofferenza o lo strumento con cui la nostra anima ci richiama alle esigenze del corpo e al nostro bisogno di connessione col divino.

Ma la relazione con il cibo di mette anche davanti al nostro rapporto con la disciplina e le regole, con l’etica e la politica (pensiamo, ad ex al caso dello sfruttamento degli animali o del terreno), con la nostra capacità di fare nuove esperienze e di prendere le distanze dalla tradizione, ma anche alla ricerca di casa che spesso si traduce nella preparazione dei piatti che mangiavamo da bambini.

Il consulente ha dalla sua i riferimenti alla tradizione filosofica e spirituale, ma anche la sua capacità di problematizzare ed, eventualmente, di mostrare le incongruenze tra i desideri della persona e le sue azioni concrete.

Partire dai testi e valutare quali sono le opzioni a disposizione, aiuta a recuperare il contatto con la razionalità nei momenti in cui l’emotività sembra prendere il sopravvento e gli esercizi di mindful eating consentono di avere un maggiore distacco da emozioni, pensieri, sensazioni e di fare, così, scelte più ponderate.

Non solo, imparare a riconoscere quali automatismi ci guidano, è il primo passo per sradicarli e riflettere su ciò che essi riflettono (bisogno di controllo, incapacità di rispondere agli stimoli ambientali, vittimismo, ecc…) permette di delineare e chiarire al consultante quali sono le idee e i valori su cui sta costruendo la propria vita.

Riconoscere, infine, che noi non siamo i nostri pensieri nè le nostre azioni, favorisce un recupero dell’autostima e della capacità di prendere nuove strade.

Lavorare sugli schemi mentali attraverso domande mirate oppiure esercizi che allontanano i consultanti dall’oggetto della loro contemplazione, può invece rendere meno ossessivo il pensiero del cibo e permettere che, col tempo, si aprano nuove aree di interesse o nuove prospettive sull’argomento con un conseguente cambiamento di comportamento.

Prima di tutto, dunque, si tratta di ricordare alla persona che è qualcosa di più della somma dei suoi comportamenti e che, tuttavia, la reiterazione di un’abitudine che riconosciamo essere scorretta, porta la nostra anima – se così vogliamo chiamarla – a plasmarsi su quell’azione.

Il lavoro filosofico, dunque, può seguire strade diverse e avvalersi di strumenti e strategie molteplici.

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