Il silenzio filosofico: il luogo del non-due

“Per colmare un vuoto devi inserire ciò che l’ha causato.
Se lo riempi con altro, ancora di più spalancherà le fauci.
Non si chiude un abisso con l’aria”.
(Emily Dickinson)

 

Seduti al tavolo del ristorante, il mio interlocutore prende una matita e disegna qualcosa sulla tovaglia di carta.

Si tratta dell’ideogramma giapponese “ma” 間.

“Ma” rappresenta il vuoto, lo spazio tra i pensieri. E’ ciò che permette al the di essere versato nella tazza.

E’ un fenomeno naturale, che tuttavia a volte non riconosciamo, poiché la frenesia della mente e i ritmi di una vita sempre in corsa ci assorbono, lasciando poco tempo per osservare il naturale manifestarsi degli eventi.

Sempre più occupati a riempire gli spazi, a soffocare il grido di un’anima che si ribella ai modelli preconfezionati proposti dalla nostra cultura (che ha ormai perso drammaticamente il contatto con “l’ecologia profonda” della natura), a tenere la mente occupata per impedirle di soffermarsi su ciò che genera dolore ed obbliga a porsi le domande esistenziali che i filosofi – spesso in modo tedioso e irrispettoso del desiderio di apatia che alcune persone reclamano come diritto – hanno formulato nel corso dei secoli, smettiamo di percepirlo.

E così, quando lo incontriamo, invece di riconoscerlo come necessaria condizione per l’apparire dei fenomeni, tentiamo di scacciarlo e ne abbiamo paura.

La meditazione ci insegna ad esplorare il vuoto e, attraverso la pratica, piano piano cambiamo le reazioni automatiche di riempimento e/o fuga per lasciare emergere un atteggiamento più equanime.

Anche nella consulenza filosofica il vero dialogo ha luogo a patto che consulente e consultante non temano il vuoto, che si manifesta spesso sotto forma di silenzio.

Un silenzio che è presa in carico dell’impegno che la riflessione richiede, della disponibilità a ricominciare da zero, a sospendere il proprio punto di vista, rinunciando alla tentazione di attingere a saperi ed esperienze elaborate e vissute da altri.

Silenzio – o vuoto – che è dunque un fare spazio alle idee dell’altro, ma anche a quelle che costantemente attraversano la mente, per verificare se, al di là di ciò a cui abitualmente crediamo, c’è ancora margine per la scoperta, per la creatività, per la novità.

Questo silenzio filosofico, che ricorda l’epochè stoica, è poi accettazione e riconoscimento di un fenomeno del tutto particolare: l’incontro con l’altro.

Nella relazione di consulenza, le parole dicono, affermano, modellano la storia personale che ognuno si costruisce e attraverso cui si presenta al mondo. Ma quelle parole, si scopre strada facendo, spesso non sono chiare e definite nemmeno a chi le pronuncia con sicurezza.

Da qui l’importanza del lavoro logoanalitico che, in modo maieutica, permette al consultante di esplicitare ciò che egli associa al termine e di condividere il bagaglio di emozioni, ricordi e aspettative che fanno di un vocabolo qualcosa di più di uno strumento neutro.

E spesso, al termine del processo, tanto il filosofo quanto l’interlocutore, acquisiscono una fetta di sapere nuova e ampliano il proprio mondo, grazie all’incontro con il mondo dell’altro.

Silenzio, dunque, come presupposto della comunicazione e, infine, come assunzione di responsabilità e riconoscimento che, per il consultante, portare se stesso nella sessione e mettersi a nudo è un atto di fiducia verso il consulente.

Ecco che allora il silenzio è riconoscimento della disponibilità ad esserci e tentativo di incontrarsi sul terreno neutro della ragione, nella quale l’ego e le storie personali sono – per così dire – sospese, e trascendono l’individualità per lasciare posto all’esperienza – solo apparentemente contraddittoria – dell’assoluta compartecipazione e dell’inevitabile, strutturale differenza rispetto all’altro.

Con la speranza che ogni silenzio della vostra giornata possa essere ricco di significato,

Valeria