“Una nave baleniera fu la mia Yale e la mia Harvard”.
(Herman Melville)
Nel 2015 usciva nelle sale cinematografiche La teoria svedese dell’amore.
Il regista, Erik Gandini, padre italiano e madre svedese, racconta (in italiano) l’approccio del popolo svedese nei confronti delle relazioni, di coppia e non solo.
Colpisce, dalle immagini e dalle parole, la contraddizione di un Paese fortemente attraente per quanto riguarda la sostenibilità, le opportunità lavorative e il rispetto della natura e quella freddezza che genera condizioni di forte isolamento.
L’indipendenza, in nome della quale sono state vinte tante battaglie, diventa così un’arma a doppio taglio, che sembra condurre verso una progressiva de-personalizzazione delle relazioni, anche quelle più intime.
Facendo un balzo geografico e temporale, ci troviamo ai giorni nostri, passeggiando, almeno virtualmente, tra le vie di un Paese, l’Italia, che ha sempre fatto dell’accoglienza, dell’ospitalità e del “cuore” uno dei suoi punti di forza.
Oggi, purtroppo, le strade sono deserte e nell’aria si respira, insieme al profumo della primavera, un clima di incertezza, sospetto, fragilità.
Le strategie utilizzare dai media hanno dato vita ad una campagna che ha finito per portarci ad associare mentalmente lo scenario attuale con quello della guerra.
Un nemico da combattere – l’infezione oggi, l’altro (che di guerra in guerra assume nomi e volti diversi) in tempi bellici – l’appello all’unità del Paese, la restrizioni improvvise e l’ingerenza dello Stato nella vita dei cittadini.
I mezzi di comunicazione fanno appello alla paura (quella della morte fisica e quella del nemico), contribuendo così ad alimentare un crescente senso del sospetto.
Ciò che avrebbe dovuto o potrebbe farci sentire più uniti, sta dunque diventando motivo di divisione e di perdita di umanità.
Accanto alle rassicuranti immagini di un’Italia che si stringe attorno a chi soffre, che si riscopre solidale e forte, si insinuano dunque scenari dal sapore inquisitorio, come quelle dei vicini che si guardano con sospetto, chiedendosi se qualcuna tra le persone con cui, fino al mese scorso, condividevano sabati sera e pic-nic di Pasquetta, siano oggi “portatori del Virus“.
Immagini che sembrano tratte da un film di fantascienza stanno così diventando ogni giorno di più realtà con cui confrontarci.
Ma siamo davvero consapevoli di quello che sta succedendo? Qualcuno ha pensato ai danni psicologici che tale campagna mediatica provocherà? Ci stiamo accorgendo che la sana e giusta prudenza sta lasciando il posto all’irrazionalità e ad un’emotività che rischia di farci perdere il controllo e riportarci ad una vulnerabilità di cui, anche a livello politico ed economico, potremmo pagare le conseguenze?
E che ruolo ha la filosofia in tutto questo?
Certamente quello di far riflettere e di ancorarci alla realtà: quella dei fatti, però, non quella della narrazione che li riveste.
La narrazione, dobbiamo ricordarci, è il modo in cui interpretiamo ciò che accade, il significato che diamo agli eventi e che,purtroppo, qualche volta, narrazione si sovrappone e scalfisce i fatti stessi.
I filosofi non possono e non devono permettere che questo accada: devono continuare ad interrogare con spirito critico la realtà, dialogando con essa e scongiurando che una pericolosa carenza di razionalità apra le porte ad un futuro che, invece di essere occasione di rinascita, svolta e sana ribellione ai modelli sociali, politici ed economici che hanno fortemente contribuito a portare il nostro pianeta al collasso, diventi la triste ripetizione di passati non troppo lontani.
Dobbiamo essere Eroi del mondo che ci attende, coraggiosi e saggi demiurgi del domani a cui vogliamo dar vita. Dobbiamo riprendere il timone della nave e agire ora, oggi: perché, dopo, sarà decisamente troppo tardi.
Con necessaria fiducia e speranza,
Valeria